Kintsugi e psicologia

Kintsugi e psicologia

Ma cosa c’entra il kintsugi con la psicologia? Tutto.

L’arte giapponese del kintsugi ha molto a che fare con psicologia e salute mentale: trovare la bellezza nell’imperfezione, riparando le fratture, può essere una metafora della terapia, della resilienza e del percorso della guarigione, affrontate ricoprendo d’oro le proprie cicatrici.

Tempo di lettura: 15 minuti.

“La vita è un arazzo e si ricama giorno dopo giorno con fili di molti colori,
alcuni grossi e scuri, altri sottili e luminosi, tutti i fili servono”
– Isabel Allende

Indice

  1. Ferite ricoperte d’oro: il kintsugi
  2. Scrivere della sofferenza è difficile
  3. Stigma e pregiudizio
  4. Oltre il giudizio
  5. Il setting terapeutico
  6. Come un fiore di loto
  7. Il percorso di recovery
  8. Riferimenti bibliografici

Ferite ricoperte d’oro: kintsugi e psicologia

Il kintsugi è l’antica arte giapponese di riparare gli oggetti in ceramica che hanno subito una rottura, riempiendo d’oro e saldando la frattura che si è venuta a creare nella candida creta. Si realizza così un oggetto prezioso, non solo per l’oro di cui è rivestito, ma anche per la storia che ha vissuto e che lo coinvolge. Così come i cambiamenti e le fratture che affrontiamo ogni giorno in quanto esseri umani simboleggiano il nostro essere presenti nel qui ed ora, nel flusso costante della vita, fatto di alti e di bassi. Riempire d’oro le proprie ferite è un atto di resilienza che tutti noi meritiamo. Anche se a volte può risultare un atto di coraggio difficile, se non impossibile.


Perché non c’è dolore e non c’è frattura che non valga la pena di essere saldata attraverso l’oro, attraverso la cura di noi stessi e della nostra salute mentale. Sì, perché non c’è benessere se non ci prendiamo cura delle nostre emozioni e dei nostri pensieri, indissolubilmente legati al nostro corpo e alla nostra esperienza.
Anche tu puoi chiedere aiuto, perché lo meriti.

Scrivere della sofferenza è difficile

Scrivere della sofferenza è difficile, così come è complicato parlarne e condividerla. Anche nella stanza di terapia. Durante le sedute non di rado capita che ci sia un silenzio carico di dolore, che cerca di mettere insieme le parole per comunicare il caos della tempesta che sta insorgendo nel mondo interno del paziente. Nella stanza di terapia si aprono i cuori ai dubbi e alle speranze. E spesso capita che si esprima il desiderio di risolvere le proprie sofferenze facendole sparire come per magia, con una bacchetta magica.


Ma non esiste un libro degli incantesimi capace di far scomparire la nostra sofferenza: l’unico modo per imparare a gestirla è attraversarla, vivendola in tutto il suo dolore. Perché la guarigione segue lo stesso andamento della vita: non quello di una linea retta, ma un percorso oscillante fatto di alti e bassi, di nuovi equilibri. Come le onde del mare.
E la stanza di terapia può aiutare a fornire un riparo dal vento e dalla pioggia, un riparo che si costruisce insieme mettendo ordine a quel caos che sembra incomprensibile. Permettendoci anche di sostare nella sofferenza, senza venirne travolti e senza perderci in essa: magari abbiamo con noi un ombrello di cui ci eravamo da tempo dimenticati.


Nella stanza di terapia si impara ad esercitare un’abilità che spesso viene data per scontata, se non addirittura dimenticata: la compassione. Nella stanza di terapia si impara a praticare la gentilezza con le nostre fragilità, ad accogliere la nostra vulnerabilità. E proprio come nell’antica arte giapponese del kintsugi (che tanto ha a che fare con la psicologia), in terapia si impara ad accettare che possiamo essere imperfetti, possiamo anche sentirci “rotti”, ma che proprio per questo vale la pena di intraprendere il percorso di guarigione per ricoprire le proprie cicatrici d’oro.


Perché realizzare di essere umani non è facile. Significa essere fallibili e imperfetti. E a volte dobbiamo imparare a trovare la bellezza insita proprio nella mancanza della perfezione, realizzando che è uno standard irraggiungibile. La bellezza più grande e più difficile da scorgere è proprio la realizzazione che siamo umani.

Stigma e pregiudizio

La salute mentale è ancora circondata da un forte stigma sociale che permea la nostra società. Nonostante nel corso del tempo ci sia stato il riconoscimento di salute intesa anche e, forse, soprattutto come salute psicologica, le barriere che rendono accessibili i servizi di cura sono ancora tante. Così tante da sembrare invalicabili.


La sofferenza è ricoperta da pregiudizio, senso di colpa, vergogna. In realtà prendersi cura di sé è un immenso atto di coraggio, un prendersi cura di sé profondo e pieno di amore. E così si finisce con il nascondersi. Ma questo non succede con le malattie fisiche, visibili, della carne: se hai una gamba rotta, non la nascondi, ma metti il gesso per guarire. Perché quando si tratta della nostra salute mentale allora lasciamo correre, soffriamo, non ci curiamo, anzi: nuotiamo nella nostra vergogna fino ad annegare?


Quando la salute mentale diventa invisibile finiamo per essere infestati da spettri e fantasmi carichi di sofferenza e dolore. Imparare ad accettare e affrontare il fatto che a volte non stiamo bene, è il primo grande passo verso la guarigione. Ed è difficile. Ed è complicato. Ma è anche possibile. Proprio per questo è importante prendere d’esempio il kintsugi anche nell’ambito della psicologia: l’imperfezione e la sofferenza non vanno nascoste, ma accolte con compassione e amore.

Oltre il giudizio

Uno dei nostri peggiori nemici è il giudizio. Non solo il giudizio verso gli altri, ma soprattutto il giudizio severo che rivolgiamo a noi stessi. E quando finiamo per perderci nella spirale del giudizio, allora iniziamo a rivolgerci parole cattive, dimenticando tutte le cose preziose che fanno parte di noi. Perché considerarsi un fallimento diventa la normalità nel confronto con gli altri. Più bravi, più veloci, più intelligenti, più belli, più forti. E diventa estremamente difficile riconoscere le cose belle di noi, rinchiuse nel nostro mondo interno che tenta disperatamente di sopravvivere nonostante il nemico giudizio abbia fatto irruzione nel suo castello.


Quindi, ogni tanto, ricordati di cantare un’ode alle cose belle di te che rischi di dimenticare. Al suono della tua risata, alla luce dei tuoi occhi. A tutte le volte in cui ce l’hai fatto e anche a tutte quelle volte in cui ha avuto il coraggio di chiedere aiuto. Perché anche tu meriti di prenderti lo spazio per esistere. E di riempirlo di luce e di amore, iniziando anche a rivolgere un po’ di gentilezza verso di te. Imparando a riconoscere tutte le cose belle di te che stai dimenticando e ricoprendole d’oro.

Il setting terapeutico

“Di relazione ci si ammala, di relazioni si guarisce”
– Patrizia Adami Rook

Bion descriveva una funzione speciale – quella di contenitore e contenuto – che permette al bambino di imparare a riconoscere e a regolare i suoi contenuti mentali emotivi attraverso il rispecchiamento di questi nel caregiver, che li riconosce, li nomina, li contiene – in sostanza li traduce e digerisce per lui, permettendogli così di acquisire la consapevolezza di essere un universo che contiene in sé moltitudini esperienziali, di essere in sostanza umano.
Nella relazione terapeutica, in cui si costruisce l’alleanza tra paziente e terapeuta ci sono continue rotture e riparazioni, il qui ed ora terapeutico diventa il teatro in cui mettere in scena le proprie storie, digerendole in modi nuovi.

Il setting terapeutico è la cornice all’interno della quale si sviluppano i presupposti per il lavoro terapeutico: è costituito da tutto ciò che delimita, circoscrive, descrive e sostiene l’intervento psicologico. Il setting è dunque un luogo mentale, uno spazio potenziale, ma anche tangibile: è costituito dal tempo e dallo spazio che delimitano l’intervento terapeutico e lo definiscono, fornendo quella cornice che rende possibile implementare la relazione clinica. Si compone anche degli obiettivi e dal contratto terapeutico, che accompagnano l’intero processo. E il processo terapeutico è estremamente delicato e difficile: è un vero e proprio lavoro, un impegno duraturo, che richiede interesse, curiosità e motivazione. E anche coraggio.

Proprio per questo è importante che la stanza di terapia sia un luogo accogliente, sicuro. Un luogo fisico, ma anche potenziale e immaginario, da poter introiettare. Da poter portare con sé nella vita del mondo esterno.
Lo studio in cui si lavora è un posto speciale: un posto sicuro, il posto al sicuro. Un luogo in cui si sviluppano potenzialità e si trovano nuovi significati, esplorando insieme le vastità del nostro mondo interno, in cui poter operare l’arte del kintsugi nell’ambito della psicologia.

Come un fiore di loto

Il fiore di loto è un fiore bellissimo, che nasce in condizioni estreme. Diventa simbolo di resilienza, di rinascita, di flourishing. Con perseveranza, il fiore di loto cresce nel fango e nelle acque paludose: il suo seme è spesso, ricoperto da una scorza spessa che germoglia solo quando scalfita. E il seme del fiore di loto, poco alla volta, ferita dopo ferita, addirittura ricoperto di fango, sboccia.
Rimanendo saldo nonostante le avversità e la corrente provino a trascinarlo via, bellissimo. Essere un fiore di loto significa esercitare la consapevolezza che, nonostante le ferite, possiamo restare con i piedi saldi ancorati alla terra e iniziare a danzare.

Il percorso di recovery: kintsugi e psicologia

La terapia è un percorso. Difficile, pieno di salite e discese, ma anche ricco di scoperte e di ri-scoperte. E anche la guarigione segue questo andamento altalenante… proprio come la vita: non una linea retta, ma un percorso oscillante come le onde del mare, fatto di alti e bassi che impariamo giorno dopo giorno a tollerare con più maestria, raggiungendo nuovi equilibri.


Ricorda che la tua sofferenza è reale. E che è possibile lavorare con le matasse di dolore del tuo mondo interno. Anche se è complicata e difficile, la recovery è possibile. Un giorno alla volta. Perché tutto è temporaneo, anche la sofferenza. E come ora il cielo è coperto di nuvole, tra qualche minuto, tra qualche ora, tra qualche giorno, tornerà a splendere il sole, luccicante come l’oro del kintsugi che ricopre le tue cicatrici.

Lo scopo del presente articolo quindi è puramente informativo e divulgativo: non si sostituisce ad un percorso di terapia personale o a un iter diagnostico, ma ha il solo scopo psicoeducativo.

Riferimenti bibliografici

American Psychiatric Association. (2022). Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders. 5th ed. Text Revision.
Beck, J. S. (2013). La terapia cognitivo-comportamentale. Edizione Italiana a cura di A. Montano. Roma: Astrolabio Ubaldini Editore.
Recalcati, M. (2021). The Enduring Kiss: Seven Short Lessons on Love. John Wiley & Sons.
Ferro, A. (2007). Evitare le emozioni, vivere le emozioni. Milano: Raffaello Cortina.
Goleman, D. (2011). Intelligenza emotiva. Bur.
Gross, J. J., Richards, J. M., & John, O. P. (2006). Emotion regulation in everyday life.
Santini, C. (2018). Kintsugi L’arte segreta di riparare la vita. Rizzoli.
Dimaggio, G., Centonze, A., Ottavi, P., Popolo, R. (2024). Relazione terapeutica e tecniche esperenziali. Terapia metacognitiva interpersonale. Raffaello Cortina, Milano.

Articoli correlati

  1. La guarigione in terapia
  2. Come vivere le emozioni?
  3. La mindfulness in terapia
  4. Le parole della psicologia
  5. La mindfulness per il trattamento di PTSD e trauma