La guarigione in terapia è diversa per ogni individuo… ma allora, qual è il significato della terapia? Tempo di lettura: 17 minuti.
Indice
- Soffrire non significa ricerca di attenzioni
- La diagnosi: cos’è e a cosa serve
- Il cambiamento può fare paura
- La recovery non è lineare
- Il disagio fa parte della guarigione
- Accettare il nostro passato
- Il significato della terapia
Soffrire non significa ricerca di attenzioni
È facile che la sofferenza psicologica finisca per diventare invisibile: mentre un tornado sconvolge il nostro mondo interno, portando via ogni sicurezza, dall’esterno può sembrare un giorno come tanti altri. E così finiamo per pensare che il nostro dolore non sia abbastanza grande, grave, pesante, intollerabile. E allora ci incolpiamo, ci convinciamo che l’unica soluzione sia nascondersi dagli occhi degli altri, che sembrano riuscire a navigare così bene nella vita. Ci convinciamo che forse, dopotutto, stiamo solo cercando un modo per ricercare attenzioni e che non stiamo poi davvero così male.
Non validiamo più la nostra sofferenza, sperando che vada via come per magia: c’è qualcun altro che sembra stare peggio di noi, perché alla fine non è poi così grave quello che stiamo passando. Quindi, è molto facile che la sofferenza psicologica diventi invisibile, oscurata da stigma e pregiudizio. Ma ogni dolore è valido, non importa quanto grande o quanto piccolo possa sembrare. Quello che possiamo fare è imparare a riconoscerlo e ad accoglierlo, coltivando la speranza e lavorando per il cambiamento.
La diagnosi: cos’è e a cosa serve
La condivisione della diagnosi in terapia è uno di quegli argomenti all’apparenza un po’ scomodi, che scatena tanta paura e tanti timori. La verità è che non esiste una sola diagnosi. Siamo infatti universi troppo complessi per essere ridotti ad una sola parola: proprio per questo nel lavoro terapeutico ne esistono diversi tipi.
E sono tutti a loro modo indispensabili, poiché ci permettono di navigare nella complessità dei nostri mondi interni seguendo una guida nosografica e personale. La diagnosi diventa uno strumento di conoscenza, per affrontare l’ignoto: attraverso un nome definito, si riconosce la sofferenza e si affronta in un piano terapeutico condiviso tra psicologo e paziente.
Questo nome però si adatta alla persona che abbiamo di fronte nel nostro studio: il significato della diagnosi è diverso per ogni persona. E questo va affrontato all’interno della relazione terapeutica: perché la diagnosi non è la soluzione ad ogni dubbio, ma neanche una condanna inesorabile e senza via di uscita.
La diagnosi è un’opportunità: per lavorare insieme e raggiungere gli obiettivi del percorso terapeutico.
La diagnosi categoriale
Si inquadrano le difficoltà e la sofferenza riportate dal paziente all’interno di una categoria diagnostica riconosciuta a livello mondiale, attraverso l’utilizzo di specifici manuali scientifici. Esempi di manuali sono il DSM-5-TR e l’ICD-11.
La diagnosi funzionale
Qui è il vissuto unico e personale del paziente ad diventare il nucleo d’interesse: quali sono le sue risorse, le sue motivazioni, le sue esperienze? Quali sono i punti di forza e quali le loro funzioni?
Il cambiamento può fare paura
Il cambiamento fa paura. Significa uscire dalla nostra zona di comfort, uscire da quei confini che abbiamo laboriosamente e minuziosamente costruito nel tentativo di proteggerci. Significa mettere in discussione le strategie che fino ad ora abbiamo utilizzato per sopravvivere.
Ma una delle cose che ho imparato in terapia è che restare fermi richiede tantissima energia. Ed è stancante. E alla fine fa anche più paura del cambiamento stesso. Perché nella vita niente resta tutto uguale, neanche noi.
E sono necessari, per attraversare il cambiamento e iniziare a superare i confini delle barriere che abbiamo costruito, tanto impegno. Tanto tempo. Ma anche tanta gentilezza.
Sì, la terapia ti cambia. Ti insegna ad ascoltare i tuoi bisogni, a dare spazio alle tue emozioni. A riconoscere i tuoi confini e a darti strategie nuove per attraversare la vita. In terapia si impara che è necessario assumersi le proprie responsabilità, ma si impara anche a guardarsi con gentilezza e compassione. Si impara ad essere umani, a riconoscere e a sostare nel proprio dolore per poi accettarlo e lasciarlo andare.
La recovery non è lineare
Nella stanza di terapia si aprono i cuori ai dubbi e alle speranze e spesso capita che si esprima il desiderio di risolvere le proprie sofferenze facendole sparire come per magia, con una bacchetta magica. Ma non esiste un libro degli incantesimi capace di far scomparire la nostra sofferenza: l’unico modo per imparare a gestirla è attraversarla, vivendola in tutto il suo dolore.
Perché la guarigione segue lo stesso andamento della vita: non quello di una linea retta, ma un percorso oscillante fatto di alti e di bassi, di nuovi equilibri… come le onde del mare.
E come le onde possono essere gentili e calme, così possono invece essere in tempesta: navighiamo nel mare della vita seguendo le curve dell’acqua. Perché non esiste una pozione magica in grado di far sparire ciò che non ci piace e non è questo il significato della guarigione: recovery significa riuscire a trovare un nuovo equilibrio, tollerando le onde del mare anche quando questo è in tempesta.
Il disagio fa parte della guarigione
La guarigione dunque è un processo che assomiglia alle onde del mare: non è lineare, ma è fatto di alti e bassi. Tollerare questo andamento non è semplice: anzi, può essere molto faticoso. Guarigione e crescita sono processi scomodi: richiedono impegno e lavoro costanti… e a volte, finiamo con il perdere la motivazione e la speranza di poter davvero raggiungere i nostri obiettivi.
E allora restare fermi, bloccati nella nostra zona di comfort può sembrare la scelta più facile. Dopotutto, quando conosciamo la sofferenza, questa può anche diventare paradossalmente rassicurante.
Il disagio però non è sempre una cosa negativa: ci segnala che stiamo facendo semplicemente qualcosa di diverso. E la terapia è faticosa: significa prendersi cura di sé, cambiare i propri pattern di riferimento. Inciampare nel percorso o fare fatica a lavorare su di sé non sono fallimenti o errori: significa che ci stai provando e che ce la stai mettendo tutta. E questo può essere diverso ogni giorno.
Impegnarsi nel processo di recovery significa anche imparare di nuovo a crescere, a prendersi cura di sé, a sviluppare la tolleranza verso l’incertezza della vita. Significa anche stare scomodi, per uscire dalla zona di comfort della nostra sofferenza.
Accettare il nostro passato: la guarigione in terapia
Lasciare andare il passato però sembra un ostacolo invalicabile: com’è possibile perdonarsi quando guardando indietro si vedono solo errori? Pensiamo e ripensiamo a ciò che è accaduto, sperando di poter andare indietro nel tempo come per magia: e fa male realizzare che non è possibile cancellare il passato e che gli sbagli commessi restano lì, indelebili. E mentre cerchiamo una gomma da cancellare che corregga tutti i nostri errori, finiamo con il perderci i colori del presente, vivendo immersi nella vergogna, nel senso di colpa, nel risentimento.
Ma ti svelo un segreto: noi impariamo dal nostro passato. Ieri non sapevi ciò che sai oggi: siamo esseri umani, perfettamente imperfetti. E anche se non è facile accettare gli sbagli che abbiamo commesso in passato, possiamo imparare a perdonarci. Non sei più la persona che eri ieri e domani non sarai la persona che sei oggi.
Il significato della terapia
Scrivere della sofferenza è difficile, così come è complicato parlarne e condividerla. Anche nella stanza di terapia. Durante le sedute non di rado capita che ci sia un silenzio carico di dolore, che cerca di mettere insieme le parole per comunicare il caos della tempesta che sta insorgendo nel mondo interno del paziente.
Nella stanza di terapia si aprono i cuori ai dubbi e alle speranze. E spesso capita che si esprima il desiderio di risolvere le proprie sofferenze facendole sparire come per magia, con una bacchetta magica. Ma una soluzione magica e immediata purtroppo (e per fortuna) non esiste: la complessità umana non lo permette.
E la stanza di terapia può aiutare a fornire un riparo dal vento e dalla pioggia, un riparo che si costruisce insieme mettendo ordine a quel caos che sembra incomprensibile. Permettendoci anche di sostare nella sofferenza, senza venirne travolti e senza perderci in essa: magari abbiamo con noi un ombrello di cui ci eravamo da tempo dimenticati.
Nella stanza di terapia si impara ad esercitare un’abilità che spesso viene data per scontata, se non addirittura dimenticata: la compassione. Nella stanza di terapia si impara a praticare la gentilezza con le nostre fragilità, ad accogliere la nostra vulnerabilità.
Perché realizzare di essere umani non è facile. Significa essere fallibili e imperfetti. E a volte dobbiamo imparare a trovare la bellezza insita proprio nella mancanza della perfezione, realizzando che è uno standard irraggiungibile. La bellezza più grande e più difficile da scorgere è proprio la realizzazione che siamo umani.
Lo scopo del presente articolo quindi è puramente informativo e divulgativo: non si sostituisce ad un percorso di terapia personale o a un iter diagnostico, ma ha il solo scopo psicoeducativo.
Riferimenti bibliografici
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