Psicologia e social media

Psicologia social media

Essere una psicologia sui social è difficile: riflessione sul ruolo degli psicologi nell’era dei social media. Tempo di lettura: 20 minuti.

Indice

  1. La psicologia è scienza… fuori e dentro i social media
  2. Fare la psicologa… social!
  3. Spazi umani e virtuali
  4. Cosa ho imparato lavorando come psicologa?
  5. Anche sui social la psicologia ha dignità
  6. La sofferenza merita rispetto
  7. Il ruolo della terapia
  8. Riferimenti bibliografici

La psicologia è scienza… fuori e dentro i social media

La psicologia è la disciplina il cui scopo è quello di migliorare la qualità della vita delle persone e della comunità. E questo avviene studiando il comportamento dell’essere umano, le sue emozioni, i suoi pensieri, ma anche i suoi processi cognitivi e sociali.

E sono tanti i miti che circondano la salute mentale, tra stereotipi e pregiudizi che rendono sempre più complesso lavorare sul benessere psicologico.

La sofferenza psicologica può essere come una ferita aperta che fa male, ma che nessuno sembra notare. E intorno a noi non vediamo cerotti o bende sufficienti per aiutare il tornado che sconvolge il nostro mondo interno.

E mentre il dolore fisico è qualcosa di estremamente reale e concreto, qualcosa di visibile e tangibile. Il dolore della psiche viene considerato un qualcosa di cui vergognarsi, prova di debolezza e mancanza di volontà.

Ma empatia, rispetto e attenzione sono elementi imprescindibili per il benessere… E quest’ultimo non può esistere senza la salute mentale. Ci riguarda ogni giorno. E anche se la strada da percorrere verso la consapevolezza è lunga, il cammino inizia con il primo passo.

Fare la psicologa… social!

Navigare come psicologa nell’era digitale mi ha messo di fronte a tante scelte e a tante scoperte. Non è facile mettersi in gioco, ma è anche attraverso l’esposizione online che possiamo esplorare le costellazioni dei nostri mondi interni.

Le parole sono strumenti molto potenti ed è attraverso di esse che lavoriamo, ogni giorno. Dentro e fuori lo studio, sui social media e nel mondo reale. Esploriamo universi attraverso la parola.

E nel mio percorso ne ho individuate tre che possono racchiudere quella che è la mia esperienza come divulgatrice: ruolo, obiettivi e confini. Mi pongo sempre infatti tre domande quando rifletto sul mio ruolo di psicologia presente sui social:

  1. Con quale ruolo professionale sto scrivendo questo contenuto?
  2. Qual è il mio obiettivo comunicativo?
  3. Dove sono i confini del mio benessere personale e professionale in ciò che costruisco online?

Quindi, seguiamo la mappa tracciata dal nostro mondo interno, ma come bussola abbiamo il nostro Codice Deontologico. Alcuni articoli da tenere a mente quando si parla di psicologia e social media:

Art. 28

Lo psicologo evita commistioni tra il ruolo professionale e vita privata che possano interferire con l’attività professionale o comunque arrecare nocumento all’immagine sociale della professione.

Art. 39

Lo psicologo presenta in modo corretto e accurato la propria formazione, esperienza e competenza. Riconosce quale suo dovere quello di aiutare il pubblico e gli utenti a sviluppare in modo libero e consapevole giudizi, opinioni e scelte.

Art. 40

Indipendentemente dai limiti posti dalla vigente legislazione in materia di pubblicità, lo psicologo non assume pubblicamente comportamenti scorretti finalizzati al procacciamento della clientela.

Ecco, per chiudere questo post forse ho trovato una quarta parola: colleganza.

Art. 33

I rapporti fra gli psicologi devono ispirarsi al principio del rispetto reciproco, della lealtà e della colleganza.

Perché è anche qui nel mondo virtuale che si stringono legami importanti, che entriamo in contatto con universi affini: la colleganza è strettamente connessa al discorso psicologia e social media.

Spazi umani e virtuali

Lo studio in cui si lavora è un posto speciale: un posto sicuro, il posto al sicuro. Un luogo in cui si sviluppano potenzialità e si trovano nuovi significati, esplorando insieme le vastità del nostro mondo interno.

Cosa si può trovare nello studio di una psicologa? Tante cose, dalle più materiali alle più evanescenti. Fiducia, sicurezza, protezione, nuove possibilità di senso. Ma anche tante caramelle.

Bion descriveva una funzione speciale – quella di contenitore e contenuto – che permette al bambino di imparare a riconoscere e a regolare i suoi contenuti mentali emotivi attraverso il rispecchiamento di questi nel caregiver, che li riconosce, li nomina, li contiene – in sostanza li traduce e digerisce per lui, permettendogli così di acquisire la consapevolezza di essere un universo che contiene in sé moltitudini esperienziali, di essere in sostanza umano.

Nella relazione terapeutica, in cui si costruisce l’alleanza tra paziente e terapeuta ci sono continue rotture e riparazioni, il qui ed ora terapeutico diventa il teatro in cui mettere in scena le proprie storie, digerendole in modi nuovi.

Esplorare le profondità delle nostre emozioni e dei nostri pensieri fa paura. E tanta, anche. Significa vedere un riflesso di sé che spesso teniamo nascosto anche a noi stessi. E il processo terapeutico è estremamente delicato e difficile anche per questo: è un vero e proprio lavoro, un impegno duraturo, che richiede interesse, curiosità e motivazione. E anche coraggio.

Proprio per questo è importante che la stanza di terapia sia un luogo accogliente, sicuro. Un luogo fisico, ma anche potenziale e immaginario, da poter introiettare. Da poter portare con sé nella vita del mondo esterno.

E così anche negli spazi virtuali. Seguire professionisti della salute mentale sui social media non equivale a fare terapia, ma la responsabilità sociale e deontologica della professione resta nella gestione di quello spazio – che sia reale o virtuale.

 Cosa ho imparato lavorando come psicologa?

Questa è una domanda difficile, perché ho scelto un lavoro difficile.

Un lavoro che mi mette alla prova ogni giorno, a contatto con il dolore delle persone – che diventa anche il mio e che in parte alcune volte lo è stato… O lo è ancora.

Ho imparato che spesso le nostre vite sono limitate dalle storie che ci sono state raccontate e che ci raccontiamo – finendo per identificarci con esse.

Ma ho anche imparato che le storie possono essere riscritte: non possiamo cambiare il passato, ma possiamo cambiare il nostro rapporto con la storia che ci raccontiamo.

Perché le persone sono capaci di crescere e intraprendere il percorso di recovery con grande resilienza – quella vera – anche a discapito del dolore e dei traumi più grandi.

Soprattutto, ho imparato che c’è sempre speranza, sempre. E che non è mai troppo tardi. Ho scelto un lavoro difficile, perché lo è anche la terapia: un percorso, un processo.

Anche sui social la psicologia ha dignità

Alcune volte le storie sembrano mescolarsi e ingarbugliarsi in una matassa apparentemente indistricabile di sofferenza e confusione.

Finiamo per non sapere più cosa proviamo, cosa pensiamo o addirittura perdere anche l’idea di chi siamo e di chi siamo stati, di chi saremo. Diventiamo intolleranti alla sofferenza e al cambiamento, aggrappandoci a ciò che conosciamo anche se ci genera sofferenza.

Ci illudiamo di avere controllo sul nostro dolore e ci chiudiamo in una gabbia d’oro sperando di non vedere e non sentire quelle sbarre che ci lacerano sempre di più la carne, provando un dolore così vivo che ci sembra di non avere più la pelle.

Finché non ci rendiamo conto che le nostre ferite possono guarire. Con il tempo, con amore. Con infinita pazienza, tollerando la frustrazione che ne deriva. Sappiamo che la nostra pelle non sarà più quella di prima, che sarà diversa.

Piena di cicatrici. Ma quelle cicatrici sono anche il simbolo della speranza e della fatica. Perché siamo arrivati fin qui e abbiamo scelto il cambiamento.

Per iniziare a sbrogliare la matassa nel nostro mondo interno.

La sofferenza merita rispetto

Scrivere della sofferenza è difficile, così come è complicato parlarne e condividerla. Anche nella stanza di terapia. Durante le sedute non di rado capita che ci sia un silenzio carico di dolore, che cerca di mettere insieme le parole per comunicare il caos della tempesta che sta insorgendo nel mondo interno del paziente.

Nella stanza di terapia si aprono i cuori ai dubbi e alle speranze. E spesso capita che si esprima il desiderio di risolvere le proprie sofferenze facendole sparire come per magia, con una bacchetta magica.

Ma non esiste un libro degli incantesimi capace di far scomparire la nostra sofferenza: l’unico modo per imparare a gestirla è attraversarla, vivendola in tutto il suo dolore. Perché la guarigione segue lo stesso andamento della vita: non quello di una linea retta, ma un percorso oscillante fatto di alti e bassi, di nuovi equilibri. Come le onde del mare.

E la stanza di terapia può aiutare a fornire un riparo dal vento e dalla pioggia, un riparo che si costruisce insieme mettendo ordine a quel caos che sembra incomprensibile. Permettendoci anche di sostare nella sofferenza, senza venirne travolti e senza perderci in essa: magari abbiamo con noi un ombrello di cui ci eravamo da tempo dimenticati.

Nella stanza di terapia si impara ad esercitare un’abilità che spesso viene data per scontata, se non addirittura dimenticata: la compassione. Nella stanza di terapia si impara a praticare la gentilezza con le nostre fragilità, ad accogliere la nostra vulnerabilità.

Perché realizzare di essere umani non è facile. Significa essere fallibili e imperfetti. E a volte dobbiamo imparare a trovare la bellezza insita proprio nella mancanza della perfezione, realizzando che è uno standard irraggiungibile. La bellezza più grande e più difficile da scorgere è proprio la realizzazione che siamo umani.

Il ruolo della terapia

La terapia è scomoda. A volte può essere addirittura terribile. Sconvolge ogni tua certezza, ogni paradigma che fino ad ora hai utilizzato per stare al mondo e ogni riferimento grafico che hai utilizzato per interpretarlo e navigare nel suo caos.

La terapia è scomoda. Ti costringe a stare in quello che prima di iniziarla definivi come “disagio” e che dopo qualche seduta hai iniziato a riconoscere come tristezza, vergogna, senso di colpa, disgusto, paura, ansia. La terapia ti costringe a guardare tutte queste emozioni in faccia e a metterle in fila, ascoltandole una dopo l’altra quasi senza sosta.

La terapia è scomoda: perché ti mette alla prova e ti spinge oltre la zona di comfort, perché richiede impegno e motivazione costanti. Diventa un vero e proprio lavoro e costa fatica (non a caso, qui a Napoli il lavoro lo chiamiamo proprio fatica).

La terapia è scomoda, perché è scomoda la vita: e ne vale la pena. Perché con la terapia trovi atlanti e bussole e sestanti nuovi per navigare nel percorso unico che è la tua esistenza. Perché ti aiuta a trovare nuove prospettive e ad aprirti al cambiamento, rendendo tollerabile la sofferenza.

Ti aiuta a credere nel fatto che puoi sopravvivere a questo dolore, ma che meriti anche di vivere. Dalla gioia alla tristezza, dalla felicità alla malinconia: tutto il ventaglio delle emozioni diventa tuo, conosciuto e fugace, ma anche ricco di tutte le sfumature dell’esistenza.

Riferimenti bibliografici

Qualche risorsa ufficiale per orientarsi tra psicologia e social media:

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Lo scopo del presente articolo è puramente informativo e divulgativo: non si sostituisce ad un percorso di terapia personale o a un iter diagnostico, ma ha il solo scopo psicoeducativo.